Ordine Disordine Contrordine

Ordine Disordine Contrordine

Questo articolo è stato gentilmente concesso dalla rivista Bioarchitettura, ed è pubblicato sul numero 55.

L’approccio scientifico che nell’architettura attuale si traduce in un tecnicismo antiumano, si sforza di assumere come riferimento ordinatore la media statistica dei bisogni, in maniera da poter dare risposte standardizzate; è un controsenso che opprime la ricchezza degli essere umani e disperde la complessità della società. Quando “l’Ordine regna” diventa possibile mercificare il Pianeta attraverso la tecnologia e distruggerlo.

L’ordine monopolizza il potere decisionale e struttura in gerarchie. Applicato all’urbanistica e all’architettura diventa avversario dell’umanesimo e dell’ospitalità e consente di mantenersi indifferenti ai disastri portati dall’inquinamento e dallo spreco. Non è un caso che l’Ordine sia sempre e solo singolare; più ordini confliggono e questo fa istantaneamente disordine.

Ne consegue che è il disordine a essere diventato il naturale rappresentante della gente. Disordine è un mondo di contraddizioni, creatività, aspirazioni, culture sottilmente differenziate che si combinano attraverso la relazione. Ma la sussidiarietà (che era la salute e la legge non scritta della società) è stata soffocata, l’ospitalità (che era la sua sola vocazione) cancellata. L’urbanismo e l’architettura, moderni, artificiosi e aggressivi, sono diventati avversari dell’umanesimo e dell’ospitalità (René Schérer). Dopo i primi periodi creativi, l’Architettura Moderna ha generato forme criminogene: le ribellioni delle periferie francesi insegnano.

A Clichy-sous-Bois sono state distrutte 10.000 macchine e nessuno (polizia, giustizia, psico-sociologi, politici, urbanisti) ha ancora scoperto con cosa, come e perché. Si sa solo che tutto ciò ha coinvolto esclusivamente i “grandi insiemi” prefabbricati. Nulla è successo poco più in là, dove la forma dello spazio ha mantenuto un minimo di spontaneità e di adattabilità. Abbiamo dunque disordini violenti e distruttivi (ma sempre portatori di significato) ed altri costruttivi, vivi, creativi ed indispensabili. Questo ovviamente non ha niente a che vedere con lo stile decostruttivista, che si limita a scomporre un oggetto in maniera illogica per dimostrare l’abilità ludico-progettuale dell’ideatore.

Quello che bisogna de-costruire è invece l’approccio al progetto da parte degli architetti, che ha bisogno di essere reimpostato orientandolo verso obiettivi umani. Capita ad esempio che, in modo pacifico, comitati di quartiere si debbano interrogarsi su progetti impropri. Difficilmente riescono ad ottenere dall’Autorità una cooperazione sincera e duratura, finalizzata ad un progetto comune pacifico. Per cui l’unica, triste vittoria possibile da parte della gente diventa “uccidere il progetto”. Come risolvere? ecologia, cooperazione, decrescita sostenibile, architettura organica capace di attuare relazioni più responsabili e dirette tra uomo e natura, nuova densità, conurbazione calibrata sui gesti degli abitanti, multiculturalità, trasformabilità, complessità, ecc. Dobbiamo intenderci.

Ecologia non è un pannello solare sul tetto, che al massimo può definirsi cosmesi verde. Un intervento è sostenibile se aperto all’ambiente, relazionale, diverso nei suoi componenti, trasformabile, mescolato di lavoro, commercio, cultura.

E di una dimensione sufficiente per evitare il ghetto e quindi proiettata al futuro: mai finita. Quando un progettista chiede agli abitanti di una comunità di dargli una mano non fa dell’assistenzialismo, mette semplicemente in pratica l’idea formulata da Ernst Haekel nel 1866: l’ecologia è “semplice scienza delle relazioni”. Il grado zero dell’urbanizzazione ecologica è allora la relazione con l’utente… Questo significa partecipazione degli abitanti, che sono l’unico fine possibile dell’architettura.

I modelli urbanistici e architettonici ancora insegnati e praticati al giorno d’oggi risalgono agli Anni ’30: separazione delle “funzioni”, delle classi, delle ricchezze, delle razze. Si tratta di pulizie etniche. Da Ford fino ai nostri giorni, i veicoli da lui inventati hanno ucciso 40 milioni di brava gente e ne hanno storpiato 200 milioni: è il progresso che oggi nelle città ci fa andare a passo d’uomo inquinando sempre di più. È necessario più spazio per le macchine ferme di quanto sia necessario per le macchine in moto, e questo distrugge la forma umana delle nostre città. Le merci artificiali distruggono i contadini e gli artigiani,  l’alimentazione (fast food) uccide il gusto e il lavoro uccide ogni abilità (taylorismo).

Dunque serve un urgente contr-ordine, inizialmente sul piano affettivo e razionale, quindi nel quadro politico, nella sperimentazione e nell’azione. In pratica è urgente far conoscere (là dove vige ignoranza e silenzio: stampa, formazione, informazione…) le vere modalità di partecipazione (non la demagogia delle consultazioni a posteriori o la geopolitica brutale e muta) e sperimentare prototipi capaci di innescare processi cognitivi. Perchè l’architettura e l’urbanistica sono chiamate a preparare le condizioni della complessità, alla maniera di un giardiniere che predispone il terreno per farvi attecchire piante non tutte uguali, creando in questo modo le premesse per l’instaurarsi di un microcosmo di mutue incidenze.

Un insieme che è in grado di crescere, svilupparsi, adattarsi secondo le necessità, la cultura e gli umori di coloro che in tali spazi vivono. In questo senso il progetto non deve definire ma orientare: deve cioè aiutare le persone ad organizzare la loro vita, come è stato per migliaia di anni. Lo sforzo di relazionarsi al contesto induce un’architettura meno arrogante nell’obbedienza a sorde tecnologie; l’impiego di materiali più naturali ammorbidisce l’immagine; il rispetto per gli abitanti e per la loro diversità (se appena vengono ascoltati) propone un’architettura senza stupide ripetizioni industriali che diventa quindi ‘naturalmente’ organica.

L’organizzazione dello spazio non può che sostenersi sulla vita dei suoi futuri abitanti, per cui il compito assegnato ai progettisti dovrebbe essere quello di disegnare un “modello pensato per rompersi”, pedagogico (una semplice illustrazione della domanda e non quello che normalmente si intende per “progetto”), capace di modificarsi secondo le decisioni che via via il progetto sociale svilupperà.

Quest’organizzazione crea relazioni attive tra vicini: è il contrario di una comunità chiusa o di un anonimato urbano. La sua forma è l’immagine complessa delle relazioni di vicinato e non quella di un parcheggio o un deposito. Arricchisce la complessità perché invita gli addetti all’istruzione, alle filosofie, ai commerci, ai compiti, a mescolarsi con il gruppo iniziale, a farsi micro società. La “programmazione generativa” li aiuta. Il tema principale di questa vita in comune è ovviamente la sostenibilità: la forma che assume lo schema dell’area diventa rapidamente “ecologica-attiva”, la sua composizione diventa “eco-diversità viva”. I temi generali sono discussi ed adottati nella libertà e nella diversità degli individui. L’alta qualità ambientale diventa un obbligo naturale: si deve tendere alla “casa passiva autonoma” indipendente nelle reti (acqua, gas; elettricità, riscaldamento, fogne ….) e nei rifiuti domestici (compost, biodigestione), utilizzando solo materiali rinnovabili (tranne che per gli edifici istituzionali…).

Si discuterà di prodotti alimentari bio, di trasporti collettivi con parco di automobili comuni, ecc. Per le discussioni i gruppi sceglieranno spontaneamente alcuni luoghi più pubblici di altri, più densi di attrattività. Questo è ovviamente possibile, anzi “naturale” se solo i tecnici non lo impedissero… Tutte queste tecniche ed argomentazioni esistono: basta raccoglierle; basta metterle insieme perchè la visione si evolva avendo consapevolezza che i tentativi più timidi tra poco saranno criticati con asprezza. L’energia migliore è quella che non si consuma ma le urgenze planetarie impongono scelte ben più radicali rispetto a esperienze concentrate solo sul contenimento della spesa. Si tratta di orientarsi verso un modello “naturalmente” contemporaneo di abitazione comunitaria, di sensibilità alla vicinanza. Non si può decentemente farne meno…

Nelle immagini: il Liceo Tecnico e Professionale a Caudry (F). Il complesso scolastico risponde perfettamente ai criteri dell’Alta Qualità Ecologica francese (HQE) che prevede numerosi controlli periodici. Ad esempio è stato necessario produrre per ogni materiale utilizzato una relativa scheda tecnica comprovante l’economia energetica della sua fabbricazione e del suo trasporto (non superiore a 200 km dal cantiere); si sono così realizzate oltre 600 schede per un totale di 5.000 pagine di relazioni. Senza una cooperazione olistica tra architetti, ingegneri, attori del gruppo e amministrazione, le prestazioni richieste dalla HQE non potrebbero essere conseguite.

L’edificio si presenta in modo singolare, nessun elemento è ripetuto, a evitare l’anestesia dello spazio; forme mutevoli, modificabili e dunque migliorabili nascono da architetture per alcuni versi parzialmente indeterminate, ma che riescono in questo modo a programmare la loro durata nel tempo. In questo caso infatti è stata prevista già in fase di progettazione iniziale la trasformabilità dei luoghi. Gli elementi statici inamovibili possono assorbire in un lasso di tempo maggiore l’impiego di materiali non rinnovabili, ciò non accade invece nel caso delle finiture, che devono quindi essere realizzate attraverso materiali rinnovabili. Tutto deve essere facilmente separabile ed adattabile, le classi del Liceo possono infatti facilmente trasformarsi in alloggi non solo dal punto di vista tecnologico, ma soprattutto senza che gli inquilini soffrano la sensazione di abitare in una scuola obsoleta e rimediata per l’occasione.